Talvolta sento che sprofondi.

Sono molto preoccupato.
Ho deciso che ti scrivo.
Qualcosa che non gradirai affatto, ma sento che voglio farlo.
 
Come sai, la mia compagna soffre di depressione da quando aveva vent’anni. 
Il primo attacco è durato un anno, ed eravamo così giovani e confusi che non abbiamo capito di cosa si trattasse, non abbiamo proprio capito che fosse un attacco di qualcosa, credevamo fosse la vita difficile, credevamo fosse difficile l’amore fra di noi, lei piangeva in continuazione, sempre di più e più spesso, non venivamo a capo di nulla, sbattevamo la testa contro un vetro che non vedevamo e non capivamo, finché una sera i suoi genitori, di poca cultura ma antico buon senso, ragionarono che se andava avanti a piangere così all’infinito allora c’era bisogno di un medico e la portarono al pronto soccorso: fu diagnosticata al volo una sindrome da depressione, le diedero un flacone di calmanti, le raccomandarono di rivolgersi ad uno psichiatra. 
Io e lei restammo sbaccaliti e increduli: non era una profondissima crisi esistenziale, era “solo” una malattia che alterava il suo umore e obbligava i suoi pensieri a gravitare intorno a un buco nero.
La situazione era estremamente semplice, lo psichiatra di turno le somministrò una cura di pillole molto diffuse, che stabilizzarono il suo umore e permisero ai suoi pensieri di tornare a fluire liberamente: fine delle crisi. 
Peccato che né lei né io fossimo disposti ad avere a che fare con dottori e medicine, né potevamo credere a malattie: poco dopo essersi ristabilita, lasciò pillole e psichiatra e continuò come se nulla fosse accaduto. 
Due gravidanze e due figli portarono nuove crisi, come si dice capiti a tante donne, che affrontò, affrontammo (uso il plurale perché fui naturalmente sempre molto coinvolto e partecipe in tutte le sue crisi) convinti di poter trovare noi le soluzioni dentro noi stessi, perché si trattava di problemi di anima, di spirito, e noi siamo la nostra anima e il nostro spirito, e dunque è ovvio che possiamo trovare da soli la soluzione (lo credo ancora, ma ormai sono arreso al fatto che sia un punto di arrivo lontanissimo da raggiungere, e intanto bisogna trovare modi per sopravvivere).
Intraprendemmo un lungo viaggio, lontano dai medici, per vie più spirituali, incontrò varie persone che cercarono di aiutarla in vari modi (fu per quelle strade, fra l’altro, che incontrammo la pedagogia steineriana). 
Ma quando iniziava a scivolare nel vortice di una crisi era già troppo tardi, quasi sempre doveva fare ricorso alle pastiglie, cosa che detestava e a cui non poteva rassegnarsi.
Scivolare dentro una crisi è un’esperienza allucinante. Nel senso che è estremamente difficile discernere la realtà dall’incubo. Quando? Quando i suoi pensieri, le cose che dice, perdono contatto con la realtà sensata delle cose e cominciano ad avvitarsi intorno al buco nero? Quando il naturale alternarsi di alta e bassa energia diventa un’innaturale immersione verso il fondo di ogni energia? Quando una contrazione fisiologica diventa crampo? Entrambi abbiamo sempre avuto molta difficoltà a comprenderlo. Capita sempre che rimango intrappolato nei suoi sragionamenti per un lungo tratto prima che finalmente mi accorga che sta accadendo un’altra volta, che sta scivolando nel vortice della crisi e che io sto perdendo lucidità e non le sono di alcun aiuto, che devo riprendermi, risvegliarmi, aggrapparmi ad una roccia e restare fermo immobile, legarla a me con una corda e lasciare che cada fino in fondo, fino a rimbalzare e tornare indietro, ritrovarci.
Solo dopo moltissimi anni e moltissimi sforzi inutili, abbiamo iniziato ad accettare la realtà delle cose.
Anzitutto che ha bisogno di un medico, perché soffre di una malattia cronica. Non basta uno specialista che si occupi degli effetti specifici della malattia, serve anche un Medico con la M maiuscola che si occupi di tutta la persona, di tutte le conseguenze a tutti i livelli, fisici, animici e spirituali della persona. Uno psico-qualcosa, uno psicologo, uno psicoterapeuta, qualunque cosa, ma che sia un vero Medico. E finché non trova quello vero, dovrà comunque accontentarsi di chi trova lungo la strada, perché comunque necessita di uno sguardo esterno ed esperto, che l’aiuti a districarsi. Non può uscire dal labirinto da sola. Deve farsi guidare da qualcuno che sta fuori del labirinto, un po’ più in alto, che abbia almeno uno scorcio sul labirinto, su dove lei si trova, e in quale direzione debba muoversi per trovare l’uscita.
Ma poi abbiamo anche dovuto accettare che la malattia non è qualcosa di diverso da lei, non è un nemico da combattere, è lei stessa, la malattia non è una cosa “cattiva” che accade a lei, lei funziona così, la sua vita funziona così, il suo corpo, la sua anima, ed è perfetta così, non sarà mai diversa da così, nel suo essere c’è questo modo di svilupparsi e fa parte del suo sviluppo il modo di affrontarlo, tutto quello che è stato finora e tutto quello che sarà ancora, la malattia non è altro, non è un’imperfezione, un malfunzionamento, quello che chiamiamo malattia è solo perché non vogliamo accettarlo, non possiamo crederci, ma siamo noi, e siamo perfetti così.
Ma la perfezione non è nulla di fermo e immutabile, nulla è fermo e immutabile, tutto si muove vertiginosamente e cambia continuamente: la perfezione è una corsa sfrenata, una danza sul filo.
 
Anche i nostri figli hanno dovuto impararlo.
È inevitabile, un destino.
Senz’altro avrai già notato anche tu quanto i bambini siano legati visceralmente alla madre; tanti genitori lo riconoscono e ci sono molti studi al riguardo.
Qualcuno dice che sono lo specchio della madre, e più in generale di entrambi i genitori e della loro relazione. 
Le maestre, i medici, quando rilevano in un bambino qualche cosa di anomalo, subito parlano con i genitori, perché sanno che il più delle volte l’anomalia rilevata parte da qualcosa che sta accadendo alla madre, o al padre, o a entrambi. E tante volte baste parlarne a fondo con i genitori, e rapidamente il bambino torna al suo stato normale.
I bambini non capiscono tante cose, ovviamente, ma le sentono subito, è proprio come se fossero collegati con una parte del loro corpo al corpo della madre. 
I nostri figli fino ai 10-12 anni sono sempre stati sensibilissimi alle sue condizioni.
Era lampante la correlazione fra il loro stato e il suo stato. 
Ognuno viveva e manifestava la cosa secondo le proprio caratteristiche, ma la cosa era evidente.
Temevo che lei potesse soffrire ancora di più per questa responsabilità, invece era altrettanto chiaro che la aiutava. Comprendemmo a fondo il significato di quell’antico mito: era proprio come se i nostri figli ci avessero scelto. Mentre erano spiritelli in cielo si erano preparati a tornare sulla terra, per continuare il loro percorso, avevano dei progetti, e volevano imparare delle cose, e per impararle avevano bisogno di una madre e di un padre con certe caratteristiche specifiche, si erano messi alla ricerca, avevano osservato dall’alto le donne e gli uomini del mondo, e avevano giudicato che lei fosse la madre giusta per loro, ed io il padre; allora avevano trigato perché ci incontrassimo e innamorassimo, e al tempo giusto erano scesi nel mondo come figli nostri. Certo, noi siamo responsabili nei loro confronti, ma siamo fatti come siamo fatti, non possiamo essere diversi da come siamo, non ne abbiamo alcuna colpa,  non ne siamo responsabili nei loro confronti. Quello che possiamo e dobbiamo fare è comportarci in modo esemplare, insegnare loro con l’esempio come si affrontano le proprie difficoltà e quelle che il destino ci porta incontro. Non è necessario che siamo ricchi e felici: dobbiamo insegnare loro ad essere donne e uomini in questo mondo, così come è. Lei lo capiva, e trovava una forza enorme nel mostrare loro come lavorava su se stessa per affrontare la sua malattia. E loro lo recepivano, si rinfrancavano, crescevano fiduciosi. Certo c’era anche paura, dolore, tristezza, ma sono elementi della vita, tanto quanto amore e gioia.
 
Sono sicuro che ho parlato già troppo e che ti fumano le orecchie, sorellina, ma non sto dicendo che sei pazza come la mia compagna, sto solo dicendo che a tutti ci farebbe bene un po’ di psicoterapia o psico-qualunque altra cosa, e che anche tu, che ti porti sulla schiena il peso di una malattia cronica bella tosta, forse potresti cercare qualcuno che ti aiuti a fare la tua strada. 
Ti chiedo di rifletterci su; sono sicuro che ci hai già pensato, forse ci hai anche già provato, ma sono molto convinto che sia molto importante.
Bella lettera per iniziare un anno nuovo, lo so, ma invece è proprio il momento giusto secondo me, quello dei buoni propositi, quello in cui, nella notte più buia dell’anno, sotto la terra gelata i semi fanno una bella capriola, si schiudono e cominciano a spingere verso l’alto, per essere pronti a diventare giovani virgulti di primavera. 
Ti auguro ogni bene.