In adolescenza sono stata una figlia difficile.

A un certo punto ho chiuso i rapporti con i miei genitori, senza motivi particolari, senza motivi comprensibili per loro.
Ci sono voluti venti anni prima che decidessi di tornare a mettere ponti fra me e loro.
Confesso che i motivi reali di tutto questo non sono ancora troppo chiari neppure a me: è accaduto.
 
In quanto genitore, ovviamente, sto cercando di capire come evitare che accada qualcosa di simile con i miei figli.
So che bisogna accettare come naturale e benefica la fase di rifiuto, di contestazione, di frattura e rivoluzione; so che spetta a me, come genitore, garantire che almeno dal mio lato restino sempre aperte tutte le porte: sono alla ricerca continua di ponti.

Coltivo la pazienza come prima virtù. 

Cerco di rimanere arresa, di accettare. 

Ho l’impressione, anno dopo anno, che la mia massa cresca, diventi come una montagna, sempre più larga e alta, sempre più stabile e paziente, paziente come la terra.

Non posso più pensare che la situazione presente non vada bene, che sia transitoria e debba essere trasformata in ciò che io credo sia bene, e che fino a quel giorno è male. 

Cerco di accettare, amare e vivere nel presente così come è, con tutte le cose buone e cattive che ci sono. 

Non sto protesa verso un futuro che chissà quando e se mai verrà. 

Non aspetto nulla per poter dire ecco, tutto è come deve essere, sono felice

Lo dico ora: ecco, tutto è come deve essere, sono felice.

Mi quieto, cerco la postura felice ora; la felicità non dipende da nulla che sia fuori di me, nulla può darmi la felicità, perché non è un sentimento conseguente a qualcosa: è una postura. 

Non rinuncio a esercitare la mia forza sul mondo, per spingerlo verso ciò che sento essere bene, ma ho una pazienza infinita, lo accetto comunque così come è, mi arrendo.

Poso le armi, non ho nulla da combattere, voglio solo esercitare una lieve forza amorevole verso ciò che sento essere bene, sapendo che le mia capacità di comprendere e le mie possibilità di incidere sono minime, invisibili, ma non inesistenti. 

Tua figlia è perfetta così come è. 

Non ha nulla di sbagliato o che funzioni male: tua figlia funziona così.

Non c’è nulla da risolvere o migliorare: è perfetta.


Ho sempre capito poco gli altri, mi sono sempre sentita poco capace di psicologie e interpretazioni.

E, quando ho dato per scontato che altri sentissero o funzionassero come me, mi sono spesso scottata, ho fatto del male senza volerlo. 

Ogni altro è assolutamente diverso da me e da tutti gli altri, gli piacciono cose diverse, ha paura di cose diverse, trova facili cose per me difficili, e difficili cose per me facili, pensa in modo diverso, sente in modo diverso e giunge a conclusioni diverse dalle mie, dà valore a cose cui io non ne do, e ne dà ad altre cui io no, ogni altro è assolutamente incomprensibile e inimmaginabile per me, e diversissimo da ogni altro.

Siamo irrimediabilmente diversi. 

Dunque ho rinunciato alla pretesa di comprendere gli altri.

Voglio rispettarli e amarli al di là di ogni mia capacità di comprensione. 

Cerco l’intesa e l’armonia anche se non li comprendo. 

La necessità che provavo di comprendere gli altri era una forma di tirannia della mia parte razionale, a cui infine mi sono ribellata.

D’altronde io stessa non mi comprendo interamente; sono fatta di talmente tante cose, molte delle quali invisibili alla parte di me cosciente, sono talmente complessa, che come posso presumere di conoscermi e comprendermi davvero?

Ci sono energie molto più profonde, potenti e complesse della razionalità: la vita muove ben al di là della mia comprensione, in me stessa e in tutto il mondo. 

La razionalità è uno strumento potentissimo e utilissimo per risolvere una certa tipologia di problemi, ma al di là di quell’area mi è spesso d’intralcio: in molte situazioni non mi serve capire, devo solo muovermi a tentoni, intuendo, provando, sbagliando, tornando indietro, riprovando in altro modo, rifacendo tutto daccapo, con enorme pazienza, per trovare almeno una delle infinite possibilità di intesa e armonia che comunque ci sono sempre.

Mi sono arresa: non pretendo di capire, cerco di sviluppare la mia fantasia, cerco di ascoltare altre parti di me, cerco la danza.

Non posso capire tua figlia. Non devo ascoltare ciò che dice a parole, devo sforzarmi di intuire cosa si muove sotto, ascoltarla con altre orecchie.

Devo provare con tenacia, fantasia e pazienza, fino a imparare l’equilibrio su quella cresta d’onda che vibra in consonanza con lei. 


Quando avevo forse sedici anni, ho chiuso la porta fra me e i miei genitori perché ritenevo che fossimo troppo diversi, che non avessimo nulla in comune da spartire; non condividevo un certo loro stile di vita, un certo modo di intendere la vita, varie cose qui e là, pensavo che sbagliassero certe cose, avevo mie idee precise su certe altre cose, ero interessata a cose cui loro non potevano essere interessati, né che potessero capire, erano noiosi, inascoltabili, volevo solo essere lasciata in pace e fare la mia vita, lontano da loro. 

Quando uscii di casa a vent’anni la situazione non era cambiata.

Quando divenni madre la situazione peggiorò. 

Perché non avevano capito che il loro ruolo di genitori/educatori era terminato quando avevo sedici anni, e che, alla mia età, dovevano rispettarmi come adulta e avere fiducia che le mie idee, benché diverse dalle loro, fossero a pieno diritto idee adulte, con lo stesso valore delle loro, e con la stessa possibilità di essere quelle giuste. 

Non capivano che non dovevano interferire con l’educazione dei miei figli, non dovevano oppormi le loro idee educative come giuste di contro alle mie sbagliate. 

Avrebbero potuto confrontarsi con me sui metodi educativi, sui diversi punti di vista, sulla distanza fra la mia visione e la loro, e magari avrebbero capito qualcosa di nuovo. 

Ma invece volevano ancora decidere loro, mi consideravano ancora una figlia, da controllare e correggere. 

Ho cercato di farglielo capire. 

Non ci sono riuscita. 

Devo avere pazienza anche con loro.


Come madre, sento che quando i figli raggiungono una certa età, diciamo quei 16 anni, il rapporto deve virare in direzione di un appoggio incondizionato. 

Come madre voglio garantire a mio figlio questo: se nel mondo troverà appoggio solo da coloro che saprà conquistare, io invece glielo darò sempre, anche quando non condividerò le sue idee. 

Sento che questo sia essere genitori, quando si chiude l’età degli educatori. 

Gli presenterò le mie idee quando saranno contrarie alle sue, gli chiederò un confronto e gli offrirò tutto ciò che so; ma quando lui rimarrà risoluto sulle sue, allora avrò fiducia in lui, che sta sopra le mie spalle e vede più lontano di me, o sta da un’altra parte e vede cose diverse da quelle che vedo io, o magari anche sbaglia ma non è possibile evitarglielo e deve sbattere la testa e farsene una ragione, e gli darò comunque il mio appoggio. 

Voglio essere un terreno solido sotto i suoi piedi. 

Un terreno su cui sappia di poter fare sempre affidamento, in qualunque circostanza. 

Diversamente, in cosa consisterebbe più la nostra specifica relazione madre-figlio, in cosa si distinguerebbe da qualunque altra relazione che stringerà?


Intanto ho compreso che dovevo a mia volta riaprire le porte ai miei genitori. 

Non potevo mantenere quella chiusura solo perché eravamo diversi e perché ritenevo che avessero sbagliato certe cose.

Ma è stato solo crescendo i miei figli che sono arrivata a questa conclusione. 

Solo trovandomi nei panni dei miei genitori, e immaginando che i miei figli potessero un giorno reagire allo stesso modo agli errori che anche io inevitabilmente stavo commettendo e avrei commesso nei loro confronti.

È diverso ascoltare gli altri che dicono certe cose, o invece viverle sulla propria pelle e un bel giorno infine sentirle dentro. 

Voglio avere un’infinita pazienza, e pregare che anche gli altri l’abbiamo nei miei confronti. 

Posso immaginare che anche tua figlia un giorno improvvisamente si vedrà riflessa nello specchio del tempo e dei cicli generazionali, e che allora vorrà chiudere i conti con tutti i passati sbagliati, e riaprirsi alla relazione con te. 


Specularmente, nella relazione con il compagno della mia vita, ho conosciuto due fasi molto difficili, in cui ho dovuto comprendere che avevo commesso errori gravi, in cui ho dovuto arrendermi al pensiero che avevo sbagliato, su questioni essenziali e profonde, che coinvolgevano grossi pezzi di me, ho dovuto arrendermi e cambiare rotta, e, della prima volta, ricordo vividamente l’istante in cui il mio baricentro ha compiuto lo scarto, lo strappo dopo il quale tutto fu diverso. 

Ma l’essere diventata diversa era una cosa che potevo sapere solo io, e pregai lungamente che egli mi desse fiducia, desse a noi il tempo per scoprire nei processi della vita concreta i segni del cambiamento.

Pregai che egli riuscisse a perdonare ciò che avevo sbagliato, a chiudere il passato, a rialzare lo sguardo verso un orizzonte comune. 

Potevo solo sperare e pregare, con pazienza e senza alcuna pretesa.

Perché naturalmente non potevo cambiare il passato. 

E perché il passato perdura, enorme e irremovibile, e chi ha subito un torto sente la necessità di richiamare continuamente quel passato, per vangarlo, dissodarlo e assimilarlo. 

Ho imparato ad arrendermi anche a questo, a riaccogliere indefinitamente in me i miei errori, e pregare perché egli sia capace di assimilarli.

Ho la sensazione che tua figlia sia sovraccarica di passato, che non riesca in alcun modo a digerirlo e che vi rimanga avvinghiata, senza riuscire a sollevare lo sguardo verso un orizzonte positivo. 


Attraverso la malattia del mio compagno, abbiamo dovuto arrenderci anche all’evidenza che non potevamo farcela da soli. 

Molti, molti anni abbiamo tentato di girare intorno al problema, abbiamo sperimentato molte vie alternative, abbiamo cercato tanto, abbiamo voluto fare di testa nostra e credere che saremmo riusciti a trovare il bandolo della matassa da soli. 

Per come ci conosco, non credo sarebbe potuta andare diversamente. 

Ma l’età porta saggezza, così dicono tutti. 

E così un giorno ci siamo arresi. 

Egli ha accettato l’aiuto dei medici dell’anima, e della chimica per lo spirito.

È difficilissimo accettare certe cose. 

Mi pare di capire che neppure tua figlia voglia avere a che fare con i medici dell’anima, gli psicologi. 

Eppure è difficile pensare che possa farcela da sola. 

Ho l’impressione che gran parte del suo carattere, del modo che ha di vedere e affrontare le cose, ruoti intorno ai suoi problemi di salute fisica; come la camminata di chi ha una gamba più corta dell’altra.

Ma è una questione talmente grande e difficile, che la investe nella sua interezza, senza lasciarle lucidità sufficiente per trovare una via d’uscita: per questo avrebbe bisogno dell’aiuto di qualcuno esterno a lei, un occhio distaccato, che riuscisse a immaginare un percorso e sapesse darle indicazioni per uscire dal labirinto. 

Mi è chiaro che è inutile suggerirle questa cosa: non può accettarla direttamente.

Sto pensando da tempo come parlarle, ma non trovo il modo, e credo che alla fine proverò a scriverle, come sto facendo ora con te. 


Intanto prego. 

È una forma di meditazione, che passa attraverso la riflessione, l’evocazione e l’invocazione.

Chiudo gli occhi e metto i pensieri a girare intorno a tua figlia, alle cose che dice e che fa, al suo compagno e alle figlie loro, li evoco uno ad uno, invio loro lampi di energia, invoco le forze della natura, il sole, il vento, la terra, a portare loro conforto, e pensieri giusti per trovare la via.

Ho sperimentato più volte la forza della preghiera.

Sento che anzitutto agisce sui miei pensieri, sulla mia fantasia, sul modo che ho di vedere le cose, e quindi su tutto il corpo, la luce negli occhi, la nota nella voce, e quindi esce da me e passa a coloro con cui entro in contatto.

Questa stessa lettera è una preghiera, muove delle cose, spero possa portare un poco di bene. 

Abbraccio te e tua figlia e vi auguro ogni bene.