Prendo cura di mio figlio affinché metta le ali e voli via.

Nella relazione fra me e te, nella misura in cui ci mettiamo in gioco, ovvero nella misura in cui schieriamo strutture più o meno definite e più o meno rigide, in quella misura prende forma una relazione meno o più organica.

Quando siamo amanti mettiamo in gioco tutto, e la nostra relazione è organica nel senso che tende a costituire una terza entità al di sopra e al di là di noi due, cioè una terza persona viva di una vita autonoma rispetto alla somma delle nostre vite correlate.

La nostra relazione ha come tema il vivere insieme tutto per sempre. 


Anche quando siamo padre e figlio mettiamo in gioco tutto. 

La relazione con te ha come tema allora il vivere insieme avendo io cura di te fino a che non spicchi il volo.

 

Qual è il fine dell'educazione?

Prendo cura di mio figlio affinché metta le ali e voli via.


Sento che qualunque altra risposta costituirebbe un abuso di potere.

Inevitabilmente ti plagio, ma cercherò sempre la linea di minor plagio.

Voglio educarti affinché ti integri alla società o la combatti? affinché gestisci o crei? affinché diventi vecchio o bruci subito? affinché vivi o sacrifichi la vita per un'idea?

Eviterò di indicare poli per quanto sarò capace, per come la coscienza permetterà, fin dove la paura non avrà il sopravvento: fino a lì vedrò di proporti strumenti, non scelte; ti mostrerò i miei valori, non te li somministrerò; non ti precluderò alcuna zona della sfera celeste, ti proteggerò da te stesso e dal mondo fino a che avrai ali forti abbastanza da spiccare il volo. 

Non hai bisogno di nulla, sei perfetto, non ho da insegnarti a volare né nulla, hai solo bisogno di protezione mentre porti a compimento lo sviluppo da cellula ad animale adulto. 

Sono la tua seconda placenta.


È capitato che mi voltassi e ti agguantassi giusto prima che cadessi dal letto: che relazione c'è stata lì? cosa ho provato? credo che quella sia la maggiore purezza cui posso aspirare. Voglio sforzarmi sempre di ritrovare quel flusso. Lì non c'è sentimento di potere, lì non mi perdo in dubbi sull'efficacia o no dell'intervento, lì è chiaro che devo difenderti da te stesso e dal mondo, lì tutto è chiaro, pulito e innamorato, lì so ciò che devo fare, lo faccio senza esitazione e dopo non resta alcun pensiero, solo amore.

 

Vorrei bandire ogni pretesa di ubbidienza. L'ubbidienza non è una virtù da coltivare. È un vizio. È deresponsabilizzazione. È la controparte del totalitarismo.

Insegnandoti ad ubbidire ti preparo ad accettare il totalitarismo?

È privo di conseguenze per la tua vita adulta apprendere ora l'ubbidienza? 

Non accadrà che ora tu sia ubbidiente, da adulto no.

Trovo curioso che l'aggettivo ubbidiente compaia così spesso riferito a infanzia e adolescenza, e scompaia nella sfera degli adulti. Eccetto che in ambienti come quello militare, per l’appunto una struttura totalitaria. Potrebbe essere che viene soppiantato da conformista, più adulto e subdolo. O da condizionato, controllato, ma sono termini sistematicamente rimossi, in quanto pericolosi dal punto di vista di chi detiene il potere e spaventosi per chi spera di essere libero.

Se ti amo, perché dovrei cercare di renderti ubbidiente?

Non è l'ubbidienza il fondamento del vivere civile.

Non è l'ubbidienza il rispetto delle regole.

L'ubbidienza non è assunzione di responsabilità, presuppone un'autorità ed un controllo, senza dei quali non ha senso parlare di ubbidienza.

La vita civile non può fondarsi sul controllo, a meno che si accetti uno stato di polizia, capillarmente monitorato.

È sul rispetto, sul rispetto reciproco, sul rispetto delle regole, che si fonda la vita civile: siamo nella sfera etica, in cui ognuno si assume la propria responsabilità e vigila sulle proprie azioni.

 

È il valore del rispetto che voglio trasmetterti. 

Dunque il compromesso, non l'ubbidienza.

L'ubbidienza la faresti solo tu, il compromesso lo facciamo insieme.

Voglio convincerti al compromesso, voglio che sperimentiamo che è il modo più vantaggioso per convivere, spero che converremo che il compromesso migliore consiste nel concordare regole e rispettarle.

 

Potresti replicare con due obiezioni opposte.

La prima è che in fondo sia sofistico distinguere fra ubbidienza e compromesso. Cui ribadisco che non c'è sofisma che tenga quando distinguo fra relazione e rapporto subordinato, fra dominio e convivenza.

La seconda è che, concesso sia meglio raggiungere compromesso e rispetto, come è possibile la convivenza fino a quando non ti convinci? 

Rispondo con una nota di carattere generale.


Se definisco un polo verso cui far rotta, questo non significa che sarò capace di raggiungerlo in linea retta, o che non percorrerò strade comuni alla rotta per gli antipodi.

Se parlo di compromesso è perché non sono fondamentalista, dunque non lo sarò neppure per la rotta, e perché dovrei esserlo circa il polo?

Però se tu ed io facciamo rotta verso due poli distanti, potrà anche capitare i primi giorni, mesi, anni che ci si incontri, ma certo verrà un tempo in cui saremo essenzialmente distanti.

Potrà capitarmi di essere autoritario, di richiedere ubbidienza, di perdere le staffe, di contraddirmi, non è questo il punto: dico solo che fino a quando avrò forza, controllo, fantasia, fiducia, intelligenza, farò di tutto per coltivare una relazione paritaria con te; quando sarò stanco, smarrito, incapace di soluzioni, altrimenti convinto, arreso, farò altrimenti.

D'altronde fa parte della mia natura, come di ogni uomo, anzi di ogni essere, tendere a instaurare rapporti di supremazia sugli altri e dominarli, per istinto di autoconservazione: mi pare evidente che lo sforzo non debba essere per dominare, ma per contenersi.

Un po' come i discorsi sui limiti da porre: non vedo proprio la necessità di sforzarmi a porre limiti, visto che noi spontaneamente, e il mondo naturalmente, ne poniamo una quantità spaventosa; sforziamoci piuttosto di essere tolleranti e collaboriamo per abbattere muri.

Sarò sfacciato fino in fondo: la questione non è sui limiti, la questione è sul genitore: se sono virtuoso trasmetto virtù, se vizioso vizi. Punto.

 

Apro una parentesi: il mio modo di vedere la politica è tal quale. 

Credo che la politica debba sempre marciare verso ideologie di sinistra, poiché la deriva di ogni individuo e di tutta la società verso destra è spontanea e inesauribile. Non dobbiamo proprio temere di finire comunisti, non potremmo riuscirci mai, con buona pace di chi sostiene di esserlo.

Chiudo parentesi, chiudo la nota e torno da capo sulle ultime due questioni.

 

È un sofisma distinguere fra ubbidienza e compromesso: io invece sostengo che è essenziale scegliere accuratamente le parole. 

Le parole sono sintomo del pensiero che le sottende e lo determinano. Una scelta sciatta e imprecisa rivela un pensiero confuso, poco chiaro, poco pensato. Se parlo bene penso bene, e viceversa.

Fra ubbidire e compromettersi c’è un abisso. I contesti che sottintendono distano qualche secolo.

 

Già, ma, fino a quando non ti convinci al compromesso, come conviviamo?

Naturalmente non ho risposta, io parlo solo di poli all'orizzonte, poi bisogna marciare fino a laggiù, aprirsi un varco quotidiano, sperimentare, vivere.

Una cosa che cerco di fare, ad esempio, è accreditarmi la tua fiducia. Un conto è ubbidire perché io comando, un altro è fare come dico io perché hai imparato a fidarti, sai che anche se non comprendi la strada è meglio seguirmi perché io dico di conoscerla e tu ti fidi. 

D'altronde questa è la differenza fra leader carismatico e dominatore: il primo lo segui perché ti fidi, non ha bisogno di stabilire rapporti subordinati, si relaziona a te come guida, perché sa cosa è giusto fare e tu ne sei certo; il secondo lo segui perché ne sei soggiogato o perché lo temi. Il dominatore dovrà sviluppare strategie e tecniche per esercitare coercizione. La sua prima esigenza sarà quella di instaurare e mantenere un rapporto di potere, dunque non potrai permetterti di mancargli di rispetto, non dovrai osare, perché egli non può rischiare di perdere il controllo e reagirà spietatamente.

Non permetterti mai più di farlo o dirlo.

Non osare mancarmi mai più di rispetto.

Simili frasi vengono proferite di norma allorché un figlio percosso restituisce la percossa, o risponde malamente a male parole.

Sostengo che, se aggredisco verbalmente o fisicamente, autorizzo i medesimi comportamenti e devo attenderli in risposta.

Ma, se per qualunque ragione ottengo schiaffi o insulti da te cui non ho fornito alcun esempio similare, avrò cura di educarti, cioè condurti tempestivamente dalla via della violenza a quella della concertazione.

 

Questo è quanto ti dissi un giorno per convincerti:

 

Obiettivo dell'educazione non è l'ubbidienza, bensì la capacità di prevedere le conseguenze delle azioni intraprese o mancate, unitamente ad un'attitudine decisionista e positiva, sulla base di un'ideologia conculcata.

Ovvero, irresistibile, cercherò di plagiarti circa la mia idea di bene e male, cercherò di indurti al decisionismo benefico, cercherò di addestrarti a prevedere l'andamento delle catene di causa ed effetto, di modo che tu possa un giorno fare la cosa giusta, vale a dire quell'atto i cui risultati tenderanno quanto più a conformarsi al mio concetto di bene.

Nell'attesa, dovrai darmi fiducia.

In effetti tre sono le vie per cui puoi deciderti a fare la cosa giusta che ti addito: il convincimento verrà quando l'obiettivo sarà prossimo; la fiducia sarà la conditio sine qua non; al timore si ricorrerà in mancanza del primo e della seconda, per necessità e come ultima spiaggia.

Il resto è convivenza, badando a non abusare della mia superiorità fisica e di potere.

Esemplifico.

Io ti dico: fai questo.

Tu lo fai non perché mi ubbidisci.

Tu lo fai perché sei convinto o fidi che sia la cosa giusta.

Mal che vada lo fai perché temi la mia ira o la mia punizione, ma avrò cura che quest'ultima via sia breve, leggera, poco frequentata, onde scongiurare che il rapporto educativo si trasformi in uno scontro personale: attestarci bellicosamente muro a muro è quanto di più sterile possiamo intraprendere.

La nonna ti ha consigliato di rispondere occhio per occhio al fratello così che lui, troppo piccolo per sapere che mordere fa male, lo impari subendo a sua volta quanto infligge.

Io ti vieto di picchiarlo, ti esorto a manifestare inequivocabilmente il dolore che ti infligge, ti prego di credere che comprenderà quando vorrai insegnargli che la non-violenza è l'unica via alternativa alla violenza-infinita.

O ti fidi di me o della nonna.

Sta a me accreditarmiti più che la nonna.

Ma anche a te dare preferenzialmente fiducia al genitore che ti è stato destinato.

  

Già, ma, fino a quando non ti convinci al compromesso, come conviviamo?

Come dicevo poco fa, io parlo solo di poli all'orizzonte, oltre che perché altro non saprei fare (essendo io pure nel mezzo del cammino), anche perché sono contrario a qualunque formulazione maggiormente definita, all'illustrazione e all'impiego di metodi.

 

Intendo per metodo un sistema di procedure.

Lo contrappongo all'ideologia come sistema di principi.

Un metodo consiste di azioni indicate per ottenere un fine.

Un'ideologia consiste di concetti che permettono di interpretare la realtà e ricercare un'azione giudicabile conforme all'ideologia.

Probabilmente ogni metodo si fonda su una ideologia.

Sicuramente esistono ideologie cui non sono associati metodi (prime fra tutte, tautologicamente, quelle contrarie allo sviluppo di un metodo).

Ecco un esempio di metodo. Per insegnare al bambino a dormire, fai così: stendilo a letto - esci dalla stanza - spegni la luce - chiudi la porta - inizia a piangere - attendi 4 minuti - rientra - di’ parole dolci e confortanti - rassicuralo circa il tuo amore - ribadisci che è l'ora di dormire - esci chiudendo la porta - inizia a piangere - attendi 7 minuti - eccetera. 

Ecco un esempio di ideologia. Il bambino è collaborativo e competente - rapportati al bambino come ad un adulto, non come ad un semi-uomo in formazione - non interpretare mai i rapporti in termini di autorità minacciata o perdita di potere: sono rapporti fra pari - eccetera. 

Nell'ambito del rapporto educativo, ogni ideologia postulerà propri ruoli e relazioni, e certamente si danno ideologie che assegnano a educando e educatore funzioni di soggetto paritarie, deducendone una relazione basata sul dialogo, l'ascolto reciproco, il confronto, lo scambio.

Di contro, qualunque metodo è il soggetto, che agisce su di un oggetto (l'educando) per tramite di un esecutore (l'educatore).

Il metodo potrà essere complicato e profondo, sviluppare ramificazioni abnormi per dare risposte specifiche ad ogni prevedibile reazione.

Io esecutore potrò essere uomo di straordinarie sensibilità e intelligenza, capace di dialoghi sublimi anima ad anima.

Ma quando applicherò un metodo, tutta la mia intelligenza servirà solo a sussumere correttamente le reazioni dell'educando alla classificazione del sistema, ottenendone in cambio l'istruzione successiva, che saprò ben mettere in atto con l'estrema accortezza ed elasticità mia proprie, ma pure altro non sarò che un esecutore, fondamentalmente cieco della cecità che arrecano i paraocchi e le briglie.

In quanto esecutore del metodo, non potrà mai darsi che io vada incontro all'educando: che faccia ciò che l'educando vuole o chiede, che mi ponga in discussione, insomma che dialoghi. Mai: anche quando parrò agire in tal senso, realmente eseguirò l'istruzione del solo soggetto attivo, il metodo.

Dunque il metodo disumanizza, passivizza parti e controparti, isterilisce la relazione.

Il metodo è violento, dà dipendenza, ha effetti collaterali.

Non disconosco l'efficacia del buon metodo, equivarrebbe a negare l'evidenza; piuttosto ne sono preoccupato, vorrei indagare i mezzi con cui il buon metodo si assicura un'efficacia pressoché universale, a prescindere dal contesto e dalle parti.

Evidentemente fa leva su quanto nell'uomo è universalmente diffuso. Ma deve essere sufficientemente forte da schiacciare (neutralizzare, inibire) quanto invece è specifico ed imprevedibile di ogni singolo educando e situazione. Una forza tale è violenza.

Ne consegue che, ove un giorno non sia possibile mettere in atto per intero la sequenza di istruzioni del metodo, l'efficacia, cioè la forza, verrà a mancare. Ovvero, palesemente il metodo ingenera una certa dipendenza, tale per cui, ad esempio, se c'è un metodo per addormentare il bambino e un giorno non è possibile porre in pratica il metodo, quel giorno il bambino non si addormenta.

Fondamentalmente ciò che trovo criticabile è la struttura procedurale contrapposta alle strutture meravigliosamente complesse e irriducibili proprie della natura. Qualunque procedura è tremendamente semplice a confronto della natura, ed è semplicissimo inficiarla.

La semplicità conferisce al metodo la forza maggiore e la maggiore debolezza. Non ho fiducia che da un insegnamento fondato su procedure possa scaturire alcunché di essenzialmente diverso da un comportamento procedurale, cioè rigido, debole, facile a crisi.

Per di più temo il mostro che una violenza metodicamente esercitata nutre, gettando quotidianamente lo “specifico ed imprevedibile” nelle cantine del rimosso: presto o tardi, in un modo o nell'altro, collateralmente, dimostrerà d'esser vivo e furioso.

 

Già, ma, fino a quando non ti convinci al compromesso, come conviviamo?

 

Già, ma questo “quando” quanto pretendo sia vicino?

Quanti anni, quanta cura ho messo in conto quando ho deciso di procreare?

A quattro mesi pretendevo che non salissi in braccio? A otto che camminassi? A quattordici che domandassi per favore? A diciotto che tenessi ordinata la camera? E perché a tre anni esigo che tu ubbidisca?

 

A mio parere, siamo vittima di una illusione prospettica.

Quando un bambino varca la soglia del linguaggio, cioè diventa in grado di parlare e intendere, irresistibilmente gli conferiamo una personalità pari alla nostra, per cui qualunque comportamento non conforme a quanto consideriamo ragionevole, buono, coerente, lo attribuiamo a disubbidienza, cattiveria e capriccio. 

La legge postula i 14 e i 18 anni come valichi per la parziale e totale responsabilità, giudicando i minorenni persone non compiutamente formate. Se credo che questa distinzione corrisponda a realtà, devo adottare questa prospettiva nella relazione con mio figlio. Che sarà una prospettiva estremamente elastica - sì, in continua evoluzione - sì, ma polarizzata verso (non postulante) la parificazione di intendimento, etica e cultura, che sta sull'orizzonte della maturità.

Spesso, e sarei tentato di dire il più delle volte, ingannati dall'errore prospettico o spazientiti o smaniosi o stremati, anticipiamo richieste e ci incaponiamo e inevitabilmente sgridiamo e puniamo e ricattiamo quando ancora mancano le basi, semplicemente, devono passare altre due stagioni prima che il tempo sia giusto e il frutto maturo.

Peccato che, trascorse le due stagioni di guerra, mio figlio accetta di lavarsi le mani quando entra in casa senza storie e io rimango certo di aver vinto una guerra santa che se non l'avessi intrapresa mio figlio mai si sarebbe lavate le mani e sarebbe cresciuto un selvaggio, mentre forse avevo solo sbagliato tempo e forse, se avessi preferito attendere altre due pacifiche stagioni, quando avessi rinnovato la pretesa, avrei colto mio figlio maturo per questa civilissima usanza.

Già, ma quanto aspettare? e se poi aspetto troppo e quello viene su davvero un selvaggio?

È una ricerca, è difficile, è pericolosa, ma chi dice che le vecchie strade, quelle percorse già molte volte e da molti altri, mettano capo a uomini migliori?

Sinceramente, credo sia meglio continuare ad esplorare, senza accontentarci dell'uomo su cui ad oggi siamo riusciti a mettere mano.

È una ricerca assoluta, senza capo né coda, nessuna rete di sicurezza, né garanzia mai d'aver trovato alcunché.

È l'equilibrismo metafisico del bene agire.

 

Insisto che per un buon equilibrio è fondamentale la serenità.

Quando i figli sono di buon umore sono tendenzialmente collaborativi e premurosi. Mentre quando ci ritroviamo in guerra diventano belve. Cosa abbastanza naturale per altro. A maggior ragione esito sempre a dichiarare guerra, mentre dedico gran parte delle mie energie a curare l'umore familiare.

In tal senso credo che il buon umore sia spesso più educativo di qualunque ramanzina.

 

L'umore e l'intenzione, cioè il rapporto.

Ricordo un episodio che mi colpì per l'evidenza.

Una dottoressa e un'infermiera armeggiavano intorno a te che ti dibattevi gridando perché volevano prelevarti sangue, allorché apparve una seconda infermiera, pura, dritta, tenera, che ti disse all'orecchio quattro banali soavità passando una mano fra i tuoi capelli: istantaneamente fosti quieto e a lei permettesti di adempiere l'ospedaliera cura. Poco dopo tornasti ad opporre una ostinata indisposizione a lasciarti pesare dalla dottoressa.

Ecco l'evidenza.

Evidentemente non era un rifiuto con baricentro la paura. Né la dottoressa era di quei medici cafoni oppure scontrosi, anzi mostrava d'essere comprensiva, mostrava attenzione, era severamente (come si confà a un dottore) materna, professionalmente parlando. Evidentemente la professionalità ti offendeva, come tutti i bambini diffidavi di chi non si rapportava a te disarmato e diretto.

L'umore (tenero) e l'intenzione (diretta e pura come esige qualunque relazione) ti indussero a deporre l'armatura che d'istinto, entrando in ospedale, avevi vestito - e avevi torto?


Parimenti in famiglia pretendevi che l'intenzione fosse diretta e non ammettevi l'essere distanti o assenti o sovrappensiero o l'avere secondi fini, non perdonavi, ti indispettivi, ti impuntavi; interpretando la cosa come sfida, immediatamente sfidavi a tua volta - di sicuro non ti davi alcun pensiero per l'umore famigliare.

D'altronde se domani un dittatore pretendesse comandarti per filo e per segno cosa fare come vestire cosa mangiare come parlare, pena grida tremende, minacce e ripicche, che pensiero ti daresti dell'umore nazionale? o piuttosto che pensiero ti daresti altro che rivoluzionario?

Questo è il punto, che non devi pensare, né d'altronde deve essere vero, che l'educazione sia un esercizio di potere invece che una forma di cura: ma questa idea non è affatto scontata, voglio conquistartela, voglio lavorarci indefessamente, voglio convincerti e per farlo voglio mettermi nei tuoi panni.

 

Allora, quanta cura ho messo in conto quando ho deciso di procreare? Cioè quanta disponibilità ho valutato equo destinare? O, più chiaramente, quanto tempo sono risoluto a mantenere per me stesso?

Perché anche questo fa parte del nocciolo della questione.

Ed in questo senso bisogna parlare di convivenza, non di educazione né di ubbidienza. 

 

Serbavo un'eco: per avviare un buon ristorante occorre investire cinque anni di vita integralmente, full-time sette giorni la settimana dodici mesi l'anno. Così, risolvendomi a desiderare un paio di figli, sentivo di dover mettere in conto almeno un quinquennio, per due figli a due anni, un lustro di dedizione totale mi pareva un buon fioretto, non potevo presumere di avviare una famiglia più velocemente che un ristorante.

Così mi sono imbarcato nell'impresa con passo da montanaro, per cambiar metafora, con lo spirito dell'alpinista che affronta gli ottomila.

Lustro in apnea. Quinquennio a tempo personale zero. Preparato ad errori di valutazione in peggio. Accogliendo qualunque minuto mio come una manna dal cielo insperata, per cui rendere grazie con cuore commosso.

E qui metto punto a patetismi ed esagerazioni. Né per altro ho idea se mi consideri esagerato o invece meschino.

Di certo possiamo discetare se in assoluto o in quale misura la disponibilità sia un bene, e in quale misura generi vizio. La disponibilità è una ricchezza, e come ogni ricchezza significa essenzialmente ampiezza di possibilità. Avere, o dare, maggiore potere, non rende vizioso, tutt'al più ampia e amplifica le possibilità di vizio, così come di virtù.

La questione resta sempre solo una: costituisco esempio di virtù? predico nelle parole e coi fatti la virtù? o il vizio?

 

Per un certo verso, dal punto di vista normativo, a tre anni l'educazione può dirsi compiuta: sapevi bene cosa era ammesso e cosa no, cosa era ritenuto pericoloso (mentre il tuo senso del pericolo era ancora pressoché nullo), cosa era richiesto.

Restava da vedere se rispettavi o meno le suddette norme e gli ordini istantanei.

Ma questa non è buona o cattiva educazione, questa è convivenza.

Le mie azioni e reazioni sono sfumatamente ma sensibilmente differenti quando mi approccio a te come selvaggio disubbidiente e quando invece come convivente in disaccordo (vuoi per cultura altra, vuoi per motivi politici: rivoluzionario!).

 

Voglio relazionarmi a mio figlio come fosse un venerando sessantenne extraterrestre.

 

Soprattutto voglio essere sincero ed equo, non abusare del mio potere, distinguere con attenzione fra norma e convivenza.

Esemplifico senza essere troppo soddisfatto dell'esempio: si danno genitori che al mare vogliono sempre stare in spiaggia e figli che trascorrerebbero l'intera giornata in piscina. È lapalissiano che qui non c'entra l'educazione ma la convivenza, e che l'unica soluzione equa sarebbe trascorrere un giorno al mare e uno in piscina, o no? Quanti casi sono riconducibili a questo più o meno sottilmente? E, se decido di abusare del mio stra-potere, sarebbe quanto meno apprezzabile (sono certo che l'apprezzano) dichiararlo onestamente.

 

L'onestà delle parole e la precisione sono fondamentali.

Ad esempio ritengo fondamentale non generare confusione fra volere, potere e dovere.

"Non devi urlare” - falso: "Voglio che non urli perché dai fastidio a me e a chi ti sta vicino".

"Non devi correre" - falso: "Se corri puoi scivolare e farti male e non voglio".

"Non puoi mangiarlo, è velenoso".- falso: "Non devi mangiarlo".

"Non disturbarmi, ora devo riposare" - falso: "Ora voglio riposare".

"Devi lavarti i denti altrimenti si cariano" - attenzione: "e io genitore devo obbligarti a lavare i denti"

 

A questo punto mi pare di aver esaurito un certo numero di questioni che mi stavano a cuore, e potrebbe essere il momento di concludere.

Ma per concludere vorrei accennare allo sfondo ideologico da cui scaturiscono queste riflessioni.

 

Intorno ai due anni i figli iniziano la prima grande rivoluzione, contro la classe dominante dei genitori: dicono no e s'incaponiscono nell'asserire la propria volontà.

Hanno sacrosantamente ragione: perché dovrebbero fare quello che vogliamo noi, piuttosto che quello che vogliono loro?

Presto o tardi soccombono, arrendendosi all'evidenza che deteniamo una possanza e un potere molto maggiori dei loro.

Segue un decennio di quieta sottomissione: il primo compromesso con il primo tiranno (la coppia genitrice) è fatto.

 

Ma a quindici anni scoprono di aver maturato sufficiente forza fisica e potere da sfidarci una seconda volta, non solo i genitori, ma tutti quanti noi, l'intera classe dominante: possono pensare e progettare di sovvertirci.

Gli adolescenti sono i veri, grandi rivoluzionari. 

In pochissimi anni acquisiscono i mezzi (materiali e culturali) per metterci seriamente in scacco.

A vent'anni cercano di farlo.

 

A trenta desistono per la seconda e ultima volta, stupendosi dolorosamente di quanto titanica avrebbe dovuto essere la loro impresa per riuscire.

Il secondo compromesso è definitivo e straniante: in cambio dell'abdicazione ottengono di passare dall'altra parte. 

Diventano classe dominante senza bisogno di sovvertire alcun ordinamento.

Perciò la resa è tanto più facile e umiliante.

Si arrendono alla realpolitik: qualunque cambiamento potrà avvenire lavorando dal di dentro in tempi geologici, cioè senza speranza di goderne mai, solo per un senso di giustizia cosmica e amore dei posteri.

 

Così rivendico l'identità semantica del participio compromesso con l'infinito compromettersi, il venir meno a sé stessi, il tradire i propri ideali pur di sopravvivere nel mondo, tutto sommato alquanto naturale ma innegabilmente compromesso.

Eppure non si può che compromettersi, come dimostra questa disarmante storiella indiana:

 

Il saggio cui domandi cosa è la libertà risponde: “Sei libero, scegli quale gamba sollevare. Ora, poi che sei libero, puoi sollevare l'altra, o no?  Ecco, questa è la libertà: sei libero di fare la prima scelta.”

 

Il bambino grida e si dispera ed è straziante la forza del suo capriccio infantile di voler alzare la seconda gamba.

Il giovane titanicamente scalcia il mondo tentando una romanticissima levitazione che dimostri la sua assoluta libertà da ogni vincolo.

L'adulto saggiamente si arrende all'evidenza che altra libertà non può ricercarsi che, nell'universale rete di relazioni, il compromesso migliore per un futuro in prospettiva classicheggiante.

Infanzia, romanticismo, classicità, rieccoci alle consuete tre età.

 

Sul piano esistenziale la partita termina con l'accettazione della propria finitezza, inesauribilmente gonfia e gravida dello slancio all'infinito.

 

Io non posso sentire altrimenti che sacro quello slancio, sacro quello spirito ribelle e rivoluzionario, unico motore di qualunque mondo, senza di cui tutto sarebbe fermo, né mai saremmo diventati ciò che siamo oggi, né mai potremmo fare un passo avanti da questo mondo tutt'altro che soddisfacente.

Sacro è l'insoddisfatto.

Sacro mio figlio che disubbidisce e trova un torto insopportabile essere obbligato a cambiarsi le scarpe quando rientra a casa.

Non sarà mia cura spegnere quel fuoco, al contrario, avrò cura che non si estingua nel compromesso inevitabile.

 

Ora esclami che in questo modo faccio il tuo male, che è come ti tenessi sotto una campana di vetro, e quando inevitabilmente non potrò più proteggerti sarai sopraffatto dalla dura realtà cui non ho saputo prepararti. 

Obietto due volte.

Anzitutto ribadisco che per quante poche limitazioni vorrò infliggerti saranno sempre enormemente tante (una a caso per rendere evidente l'osservazione: i pasti ad ore prefissate).

E poi obietto che la preparazione ad affrontare il mondo non può dipendere dalla mia disponibilità o durezza: non essendoci limite al peggio, devo forse allevarti secondo la legge della strada? devo essere malvagio per prepararti ai malvagi? devo impartirti la rinomata educazione spartana? devo ucciderti per insegnarti a morire? Non si tratta di crescerti nella bambagia, si tratta del fatto che devo prepararti ad affrontare il mondo, sono il tuo maestro, non sono il mondo, sono il maestro che ti insegna ad affrontare colui che ti causa dolore, non sono colui che ti causa dolore, ti preparo a batterti, non mi batto con te, se non simulatamente, per allenamento, è una relazione privilegiata la nostra, ovviamente.

 

Concludo tornando alle tre età: infanzia, giovinezza, vecchiaia.

Ogni età sviluppa tre fasi: acclimatamento, reazione, integrazione.

Va da sé che le tre coppie si ricopiano: fondamentalmente l'infanzia è l'età dell'acclimatamento, la giovinezza della reazione, la vecchiaia dell'integrazione.

Le tre età non sono età anagrafiche (si incontrano adolescenti infantili o adulti adolescenti).

Ma il loro ordinamento è univoco, come di processo naturale: non incontri vecchio che non sia stato giovane e prima ancora infante.

Ma capita che il processo si arresti: vedi gli eterni bambini o ragazzi.

D'altronde in qualunque età o fase possono annidarsi come scatole cinesi infinite ricorsioni del trittico base.

Nego che l'ordinamento sia finalistico, cioè che l'età successiva sia in alcun modo superiore alla precedente.

Ogni età ha le proprie verità, che sono verità assolute, cioè non confutabili dalle verità dell'età successiva o precedente.

Esemplifico con un soggetto popolare: l'amore.

I giovani credono nell'amore eterno, necessario, nella fusione identitaria di due esseri. I vecchi credono nell'amore come progetto di vita a due, sono disponibili al compromesso per la riuscita del progetto, sanno che la passione fa come il mare sotto la luna. Ma non si tratta di avere ragione di una verità: i vecchi amano così, i giovani cosà. Né puoi dire che il giovane abbia avuto torto a credere che il suo amore fosse eterno, poi che ha cambiato due volte compagna ed ora che è vecchio la bacia poco: il suo amore era eterno, ma lui è morto, e adesso è un altro. 

Mi piace parlare di "piccola morte". Al termine di ogni giorno c'è una piccola morte, al termine di ogni fase od età c'è una piccola morte.

Non riconosci il momento in cui avviene, ma, durante l'acclimatamento della fase successiva, all'improvviso sei certo che qualche tempo prima eri un altro, poi sei morto e adesso sei così.

Così come una pietra lasciata cadere tenderà verso il fondo del fiume, così un uomo sarà prima infante poi giovane poi vecchio - stupito rivoluzionario compromesso - dominato ribelle dominatore - selvaggio romantico classicista - ingenuo artista scienziato - intuitivo volontaristico intellettuale - smarrito solipsistico sociale - incuriosito innamorato intelligente - corpo cuore mente.

Senza dimenticare che la realtà è una sola, inconcepibilmente complessa.

 

Ti raccomando di leggere: Jesper Juul Il bambino è competente, Bruno Bettelheim Un genitore quasi perfetto, Francoise Dolto I problemi dei bambini, Maria Montessori La mente del bambino.